Caro direttore, sono un’insegnante di Lettere e conosco bene la realtà di molte scuole. Scuole di regioni e città diverse. Ma anche scuole di indirizzi diversi: ho insegnato greco e latino al classico, ora storia e italiano in un istituto professionale.
U n tema che mi sta caro è quello delle strutture, nessuno capisce quanto siano importanti. Soprattutto negli indirizzi più «umili», non ci si vergogna di tenere i ragazzi — e noi — in luoghi che calpestano la nostra dignità. Dai soffitti della mia scuola piovono pezzi di intonaco sui ragazzi che invece di minacciare scioperi e scrivere ai giornali locali trovano la cosa così normale da limitarsi a chiedermi di andare in bagno a togliersi i pezzi dai capelli. Ho studentesse che anche con questo caldo (le aule sono torride appena è primavera e spesso gelide d’inverno) non bevono una goccia d’acqua perché poi, se avessero bisogno di andare in bagno nei nostri servizi, non ce la farebbero. E non do loro torto: uso spesso il bagno delle ragazze, perché quello dei docenti è uno solo e spesso occupato nei cambi d’ora, e capisco il loro disgusto: non sono una schizzinosa, ma i bagni degli autogrill e delle stazioni sono certamente meglio del nostro in cui su sette porte quattro sono misteriosamente sigillate e dei tre bagni accessibili, uno solo chiude, non nel senso che gli altri non hanno il lucchetto, ma che la porta non combacia proprio con lo stipite. E quello che funziona ha una turca incrostata di calcare e nessun cestino che eviti alle ragazze di uscire con un assorbente da buttare in mano, quando ne hanno bisogno. Le poche Lim che ci sono, modelli antelucani, servono solo da schermo, non funzionando più al tocco e in genere possono essere usate con profitto solo nelle giornate piovose, visto che le finestre non hanno tende e metà delle tapparelle non scendono (abbiamo incollato dei fogli di carta sui vetri ma con il sole sono poco efficaci...). Certo, ci sono le lavagne di ardesia, di quelle montate una sull’altra che dovrebbero scorrere su e giù e non scorrono, quindi se ne utilizza solo metà. Su quelle si può scrivere. Certo, non ci sono i cancellini, ma io porto una volta al mese brandelli di magliette vecchie di mio marito che usiamo per pulire la lavagna fino a saturazione e poi buttiamo; per quello che riguarda il gesso, ogni tanto addirittura ce lo compra la scuola, ma la sua assenza nella maggior parte delle settimane ha come conseguenza che gli insegnanti acquistino gessetti personali sbizzarrendosi nei colori: ci ribelliamo così, scrivendo in verde e rosso, alla frustrazione di dover usare il nostro stipendio per comprare il sapone da mettere nel bagno e il resto che non c’è. Nei licei non si sta proprio così. I figli dei professionisti non si lascerebbero trattare in questo modo. Si accorgerebbero, uscendo da un quadrilocale in centro, che qualcosa non va. Ma i miei studenti, le mie dolci arabe, le mie composte rumene, le mie allegre ivoriane e togolesi, i pochi italiani, che forse sono i più sbalestrati, escono dalle loro case popolari per salire le nostre sordide scale e non s’immaginano nemmeno che il mondo possa trattarli meglio di così. Poi ci lamentiamo se il giorno dopo aver compiuto sedici anni spariscono da scuola. Io che faccio la referente contro la dispersione scolastica mi accanisco perché tornino e mi sento rispondere: «A far cosa, in questo posto di m..?».